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Lettera aperta – Sicurezza è cura, non controllo

Venerdì scorso, per la quarta volta in un anno e mezzo, qualcuno ha tentato di scassinare la porta del mio studio.

Di nuovo, un pomeriggio passato a riparare la porta. È vecchia, di legno, ma ha retto.


L’unica volta che sono entrati, ad agosto del 2023, hanno spaccato il vetro armato con un tombino, e messo a soqquadro tutto. La serratura aveva retto anche allora e adesso che la strada è piena di pietre perché la stanno rifacendo, non dormo la notte perché penso che potrebbero rompere di nuovo il vetro.



Non c’è niente di valore, a parte la cura che io e le mie socie abbiamo nel tenere la nostra piccola attività in piedi.


Ti senti violata. Insicura. Vulnerabile.


Nel quartiere, quasi tutte le botteghe hanno subito almeno un furto o un tentativo. Le strade non sono buie, ma sono sempre più vuote. Mancano residenti. Mancano attività di quartiere. Quelle che ci sono resistono e ho sempre trovato solidarietà da parte loro, ci teniamo stretti ma siamo pochi e un po’ affranti, stanchi e stanche.

Molti se ne sono andati, esasperati anche da anni di vetri rotti, risse, borseggi.

Se ne sono andati anche perché è in atto una speculazione tremenda sulla città, che toglie la vita quotidiana dalla strada per sostituirla con il consumo turistico e il lusso protetto da sicurezza privata.

Anche questo lusso è questo consumo sono colpiti da furti e insicurezza: è così che nascono le “zone rosse”, per proteggere il “decoro”, non le persone.


Questa insicurezza è reale, quotidiana. Ma la risposta che ci viene data, ancora una volta, è repressiva: più controlli, più telecamere, più divieti.

Con il Decreto Sicurezza appena approvato, il governo nazionale sceglie di rispondere con la forza a problemi che nascono dall’abbandono, dal dissenso, dalla povertà.


E Firenze? Firenze non è da meno.

Mentre il PD a livello nazionale critica il decreto, qui lo applica. Lo ha ricordato il consigliere Dmitrij Palagi, denunciando l’ipocrisia di chi a Roma si oppone e a Firenze difende le zone rosse, le interdizioni, il ritorno mascherato dei DASPO urbani, già bocciati dal TAR nel 2019.


Zone rosse e sorveglianza non sono risposte adeguate. Non sono per niente all’altezza della situazione.

Anzi: sono la risposta facile, e inutile, a un problema complesso.

Sono una narrazione sbagliata che danneggia tutte e tutti.

Violenza chiama violenza.

La repressione che questo governo sta instaurando verso chi è povero e verso chi critica e dissente, oltre a essere anticostituzionale, porterà altra violenza su tutti noi.

Soprattutto sulle giovani generazioni.


La sicurezza vera si costruisce con la cura. Con la presenza. Con la relazione.


Abbiamo bisogno di presidi sociali, di operatrici e operatori, di educatrici e educatori, di professioniste e professionisti capaci di ascoltare, accompagnare, accogliere.

Abbiamo bisogno di luoghi sicuri per chi è fragile. E invece?


Le cooperative sociali, che da anni portano avanti il lavoro più delicato e invisibile nei territori, sono lasciate senza risorse.

Tagli strutturali al welfare ne stanno prosciugando le forze.

Progetti che funzionavano vengono interrotti o affidati al volontariato.


Nel frattempo, 18.625 minori non accompagnati risultano presenti in Italia (dato aggiornato al 31 dicembre 2024). La maggior parte ha tra i 15 e i 17 anni.

Molti di loro sono soli, senza una rete sociale, se accolti in una struttura appena compiono 18 anni escono e vivono in strada, senza tutele. E invece di investire in accoglienza, consapevoli di quanto un paese vecchio come il nostro abbia bisogno di energie giovani, li lasciamo marcire in mano alla malavita organizzata. Ora che anche la cannabis light è considerata una droga e messa al bando (contro ogni evidenza scientifica) la mafia sguazza fra spaccio e caporalato.


È questo il modello di città, di paese che vogliamo?


Io no.

Credo in una città che non reagisca con la paura, ma con la presenza.

Una città che non smetta di ascoltare.

Una città dove la parola “sicurezza” non significhi controllo, ma fiducia.

Non esclusione, ma responsabilità collettiva.


E faccio anche tre richieste.

Non in qualità di esperta o rappresentante di qualcosa, ma come cittadina che vive e lavora in questo quartiere, che ama questa città e crede ancora che si possa cambiare direzione.



1. Chiedo che il Comune investa (e non tagli) risorse strutturali per sostenere il lavoro di operatrici, operatori sociali e cooperative di quartiere.

Non basta attivare progetti a scadenza. Serve continuità: percorsi educativi, mediazione sociale, interventi sulle fragilità non possono dipendere da bandi a pioggia.

La prevenzione costa meno della repressione. E funziona meglio.



2. Chiedo lo stop alle zone rosse e alle misure emergenziali. Voglio che la sicurezza venga ripensata come diritto sociale.

Basta usare ordinanze e interdizioni per rispondere al disagio urbano.

Le “zone rosse” spostano il problema, criminalizzano la povertà, dividono invece di unire.

Vorrei una politica che metta al centro ascolto, partecipazione e trasformazione condivisa degli spazi pubblici.



3. Chiedo al Comune di fermare la desertificazione e la turistificazione dei quartieri.

Voglio un piano urbano che favorisca il ritorno di residenti, la riattivazione delle botteghe, il sostegno all’affitto popolare e alla residenzialità stabile.

Un quartiere vivo è un quartiere più sicuro.

Senza vita quotidiana nelle strade, nessuna telecamera potrà proteggerci.


Silvia Baracani


 
 

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