Cura, lavoro e città: ciò che non vediamo e che sostiene tutto
- silvina50100
- 2 giorni fa
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Questo 25 novembre 2025 ho sentito il bisogno di scrivere un articolo che legasse donne, architettura e città, e di condividere alcuni pensieri che mi attraversano da tempo.
Ogni anno torno in piazza con la consapevolezza che la violenza non è solo un atto, ma un sistema.
Un paesaggio che abitiamo tutti i giorni e che continua a opprimerci.
Questa oppressione, che si abbatte innanzitutto sui nostri corpi, non si manifesta solo nei numeri dei femminicidi o nelle storie che riempiono le pagine di cronaca.
È fatta di redditi più bassi, carriere più fragili, contratti più precari, cura gratuita data per scontata, case inaccessibili, quartieri che ci espellono, tempi di vita che non ci appartengono mai.
È una rete di condizioni materiali ed economiche che si intreccia con la nostra libertà di muoverci, lavorare, scegliere, andarcene, tornare, vivere.
Sono giorni che mi torna in mente una frase che sento spesso ripetere da economisti, politici, commentatori, associazioni e che a volte compare perfino nelle campagne istituzionali per il lavoro femminile:
“Se più donne lavorassero, ci sarebbero più risorse per la società.”
Una frase apparentemente positiva, che sembra parlare di emancipazione.
Eppure, ogni volta che la sento, in me scatta una domanda più profonda.
Perché come fanno le donne a “lavorare di più” se il lavoro invisibile – la cura dei figli, degli anziani, delle case, delle relazioni – ricade ancora in gran parte su di loro?
Come fanno a lavorare di più se la città in cui vivono – come Firenze oggi – espelle chi non è proprietaria/o, e le donne, con salari più bassi e maggiori carichi di cura, sono le prime a essere spinte fuori?
E come possono lavorare di più se la città stessa, nella sua architettura e nei suoi tempi, non è progettata pensando a loro, ai loro spostamenti frammentati, alle loro esigenze di sicurezza, ai loro bisogni di prossimità?
Questa domanda – semplice, quasi ingenua – apre in realtà un campo immenso.
Ci costringe a tenere insieme economia, welfare, urbanistica, diritto alla casa, mobilità, sicurezza, cura.
E ci invita a guardare la città non come uno sfondo neutro, ma come una struttura che distribuisce opportunità o le sottrae, che rende possibile la libertà o la limita, che sostiene o schiaccia.
Per questo, per me, il 25 novembre non è solo memoria e denuncia:
è anche il giorno in cui provare a immaginare quali condizioni materiali servono perché la violenza – quella visibile e quella quotidiana, quella fisica e quella economica – diventi impossibile.
Ho deciso allora di partire proprio da quella frase: “se più donne lavorassero…”
Per decostruirla, per capirla, per ampliarla. Condividere un ragionamento che è nella mia testa.
E per chiedermi – come architetta, come cittadina, come donna – che tipo di città serve davvero per sostenere la libertà femminile.
E quindi la libertà di tuttə.
1. Firenze come laboratorio di esclusione (e di ingiustizia di genere)
Negli ultimi anni ho osservato Firenze trasformarsi sempre più in una città-piattaforma: una macchina di estrazione di valore dove ogni spazio — pubblico o privato — viene convertito in occasione di rendita. Non è un processo improvviso, ma oggi è diventato evidente: Firenze non si sta progettando per chi la abita, ma per chi la consuma.
L’effetto più tangibile è l’espulsione progressiva delle persone che non sono proprietarie di casa.
Gli affitti brevi, la turistificazione, la sottrazione di migliaia di appartamenti al mercato residenziale, la conversione di interi palazzi in strutture ricettive, i canoni in crescita costante: tutto spinge fuori chi ha redditi meno solidi.
E quando una città espelle, non espelle mai tutti allo stesso modo.
Colpisce prima chi è più vulnerabile sul piano economico e sociale.
In questo senso Firenze è un caso esemplare di ingiustizia di genere.
Nel territorio della Città Metropolitana, il tasso di occupazione femminile è del 74,2%, molto più alto della media nazionale che si ferma al 55%, ma questo dato non racconta l’intera storia.
Le donne che lavorano nel settore privato guadagnano mediamente 19 829 euro l’anno, contro i 27 058 euro degli uomini, con una differenza di 7 229 euro l’anno.
Un gap enorme, che pesa ogni volta che si cerca casa o si firma un contratto di affitto.
Se guardiamo alla distribuzione del lavoro non retribuito, il quadro è ancora più chiaro: in Toscana, le donne in coppia dedicano in media 20 ore settimanali a cura e gestione domestica, contro le 6 ore degli uomini.
Questo significa che anche quando siamo occupate, siamo comunque noi a tenere insieme i pezzi del lavoro di cura.
E questo “secondo turno” influisce su tutto: tempo, stanchezza, possibilità di spostarsi, disponibilità a vivere più lontano dal centro, accesso ai servizi, qualità della vita.
Il dato nazionale conferma la sproporzione strutturale: il divario di genere nel tasso di occupazione è di 17,4 punti percentuali, quasi il doppio della media europea.
In altre parole: anche quando lavoriamo, lavoriamo dentro un sistema pensato per altri.
E quando il costo della vita aumenta, il mercato del lavoro è squilibrato e gli affitti raggiungono livelli insostenibili, le prime a essere espulse dalla città sono proprio le donne.
Firenze oggi è un luogo dove la libertà femminile — la possibilità di scegliere, di muoversi, di lasciare una relazione, di costruire un progetto, di avere o non avere figli, di conciliare lavoro e cura — è condizionata da fattori materiali: reddito, casa, trasporti, servizi, prossimità, sicurezza.
Senza queste condizioni, parlare di “emancipazione” rischia di essere un esercizio astratto.
Il risultato è un paradosso crudele:
più una città cresce economicamente grazie a turismo e investimenti, meno è vivibile per le donne che la tengono in piedi con il lavoro visibile e invisibile della cura.
Ed è proprio da questa contraddizione che nasce la mia domanda iniziale:
che senso ha chiedere alle donne di lavorare di più se la città — questa città — non crea le condizioni perché questo sia possibile e giusto?
2. Cosa intendo davvero per “più risorse”?
La frase da cui sono partita — “Se più donne lavorassero, ci sarebbero più risorse per la società” — è una di quelle affermazioni che piacciono ai giornali e alle istituzioni.
È semplice, lineare, misurabile: più occupazione → più PIL → più tasse → più welfare.
Sulla carta funziona. E infatti è diventata quasi un mantra per chi, in buona fede, vorrebbe migliorare le cose.
Ma qui nasce una domanda che quasi nessuno pone, e che invece è decisiva:
Questo aumento di PIL “potenziale”, così celebrato, riuscirebbe davvero a coprire il valore enorme del lavoro di cura non retribuito?
Per rispondere, bisogna guardare i numeri.
Secondo stime recenti:
Il lavoro di cura e domestico non retribuito in Italia vale 473,5 miliardi di euro l’anno, pari al 26% del PIL.
Se si considera l’intera “produzione familiare” (cura + gestione + lavoro domestico), il valore sale a 557 miliardi di euro, cioè il 34,4% del PIL.
Oltre il 70% di questo lavoro è svolto da donne.
Le donne in Toscana dedicano 20 ore settimanali alla cura e alla casa, contro le 6 ore degli uomini.
Il gap tra occupazione maschile e femminile in Italia è di 17,4 punti percentuali, quasi il doppio della media europea.
Adesso guardiamo l’altra metà dell’equazione.
Se l’Italia riuscisse — per ipotesi — a raggiungere i livelli scandinavi di occupazione femminile, le stime più ottimistiche parlano di:
+10% di PIL potenziale,
con punte massime intorno al 12–14% negli scenari più favorevoli.
Ora, mettiamo insieme le due grandezze:
🟣 Valore del lavoro di cura non pagato: 26–34% del PIL
🟢 Incremento massimo teorico del PIL grazie all’occupazione femminile: 10–14%
La matematica è spietata:
Nemmeno nello scenario più ottimistico il PIL generato da “più donne al lavoro” basterebbe a coprire il valore del lavoro di cura gratuito che oggi sostiene il Paese.
Significa che l’argomentazione “più donne al lavoro = più risorse per tutti” funziona solo se ignoriamo la cura.
Funziona solo dentro una contabilità che considera “risorse” solo quelle monetarie, e che dà per scontato che la cura possa continuare a essere svolta gratuitamente.
Ma non può essere così.
Se più donne entrano nel lavoro retribuito, ma nessuno tocca l’organizzazione della cura, gli orari, i servizi, la città, i trasporti, l’accessibilità, la redistribuzione dentro la famiglia, allora ciò che cresce non sono le risorse.
Cresce la fatica.
Cresce la disuguaglianza.
E cresce l’ingiustizia.
Per questo parlare di risorse senza parlare di cura — e senza parlare di città — è un discorso a metà.
Un discorso che guarda solo ciò che si vede (il PIL), ignorando ciò che sostiene tutto (la cura non pagata, distribuita in modo diseguale, resa ancora più pesante dalla struttura urbana).
È qui che si apre lo spazio per lil ragionamento successivo: il lavoro invisibile che tiene insieme la società.
3. Il lavoro invisibile che tiene in piedi tutto
Sotto l’economia visibile fatta di contratti, salari e fatture, esiste un’economia sotterranea che non compare nei documenti ufficiali ma sostiene ogni attività produttiva:
il lavoro di cura non retribuito.
È un lavoro che non si vede ma scandisce le giornate: crescere bambine e bambini, cucinare, tenere in ordine, accompagnare, gestire emergenze, prendersi cura di persone anziane o fragili, organizzare appuntamenti, ricordare scadenze, tenere insieme i pezzi emotivi e logistici della vita.
È la trama nascosta che permette al lavoro retribuito di esistere.
Si chiede alle donne di lavorare di più fuori casa
senza che nessuno lavori di più dentro casa.
E quando questo equilibrio impossibile si spezza — perché non si può fare tutto — il modello culturale dominante propone una soluzione che, invece di redistribuire la cura, la sposta verso altre donne, spesso più vulnerabili.
È quello che accade già oggi in Italia e negli Stati Uniti, ma anche in molte città europee:
le famiglie con più reddito esternalizzano parte della cura assumendo donne migranti, spesso sottopagate, spesso senza tutele, spesso in condizioni di dipendenza economica che le espongono a ulteriori vulnerabilità.
È una spirale che trasforma la cura in un lavoro povero, e il lavoro povero in un dispositivo di ingiustizia razziale.
Un sistema in cui:
le donne italiane della classe media riescono a rientrare nel lavoro grazie alla delega,
le donne migranti o più povere si fanno carico della cura altrui rinunciando alla propria,
lo Stato si deresponsabilizza,
la città non offre servizi pubblici adeguati,
e la disuguaglianza si moltiplica anziché ridursi.
In pratica:
la cura non viene redistribuita, viene ricollocata lungo la gerarchia sociale.
Da donne con più risorse a donne con meno risorse.
Da cittadine con diritti a lavoratrici spesso senza tutele.
Da chi può scegliere a chi non può.
Una forma di emancipazione apparente che scarica i costi su altre donne, altre famiglie, altri corpi.
Ed è qui che dobbiamo fermarci e guardare il quadro nella sua interezza:
Non basta che più donne lavorino:
serve un sistema che non produca emancipazione per alcune e oppressione per altre.
Serve un modello diverso, che redistribuisca il lavoro di cura tra uomini e donne, tra famiglie e Stato, tra case e città.
E serve un’architettura urbana che renda la cura accessibile, pubblica, condivisa — non un privilegio, non un affare privato, non una catena di deleghe tra donne.
Ed è per questo che nel prossimo ragionamento parlo proprio di città: la cura non è solo un fatto domestico. È un fatto anche urbanistico.
4. La città come dispositivo che distribuisce (male) tempi e possibilità
Il lavoro di cura non è una questione privata. È un fatto collettivo e profondamente legato all’ambiente in cui viviamo.
Il lavoro di cura avviene dentro case con determinate dimensioni, in edifici con ascensori o senza, in quartieri dotati di servizi o completamente desertificati, lungo marciapiedi illuminati o bui, dentro autobus che passano ogni cinque minuti o ogni quaranta.
È la città, nel suo funzionamento quotidiano, che stabilisce quanto la cura peserà sulle persone — e su quali persone.
Le città che abitiamo sono state costruite secondo un modello implicito: un adulto, maschio, autonomo, senza carichi di cura, che si sposta casa-lavoro-tempo libero in modo lineare.
Tutti i mezzi convergono verso il centro, mentre sono mal collegate le zone periferiche fra sé.
È il soggetto che ha dominato l’urbanistica novecentesca, dalle metropoli americane alle città europee: un utente astratto, senza dipendenze, senza tempi frammentati, senza esigenze di prossimità.
Ma la vita reale, soprattutto la vita delle donne, è esattamente l’opposto: tempi spezzati, tragitti multipli, carichi di cura, mobilità complessa, necessità di sicurezza e di prossimità.
La città Firenze è soprattutto la sua area metropolitana, non è progettata per questa realtà.
E lo vediamo in ogni dettaglio materiale:
Marciapiedi stretti, interrotti, spesso inadeguati a passeggini o carrozzine.
Illuminazione pubblica insufficiente, con interi tratti di strada dove la percezione del pericolo aumenta. Soprattutto in periferia.
Servizi scolastici distanti dalle abitazioni, spesso non coordinati con gli orari di lavoro.
Trasporti pubblici radi, inadatti ai tragitti multipli tipici della cura.
Pochi spazi pubblici protetti, ombreggiati, vivibili, che facilitino la socialità e la sosta.
Quartieri dormitorio dove per ogni necessità quotidiana serve l’auto.
Assenza di servizi di prossimità: consultori, case della comunità, spazi civici, centri per l’infanzia, luoghi di aggregazione.
Scarsi luoghi per la cura condivisa, che permette alle donne di non essere sole.
Quando la città non offre tutto questo, il carico di cura aumenta. E aumenta in modo differenziale: non per tutti, ma soprattutto per chi già svolge la maggior parte della cura, ovvero le donne.
Il risultato è un “costo urbano del genere”: più tempo perso, più fatica, più esposizione al rischio, più stress, meno autonomia economica, meno possibilità di scelta, meno libertà di muoversi.
La città distribuisce disuguaglianza. E la distribuisce attraverso lo spazio.
Se non puoi pagare una casa vicino ai servizi, vivrai più lontano.
Se vivi più lontano, farai più tragitti.
Se fai più tragitti, avrai meno tempo.
Se hai meno tempo, sarai più stanca.
Se sei più stanca, avrai meno possibilità di lavorare o formarti.
E tutto questo, alla fine, diventa una trappola materiale che limita la libertà.
Ma c’è un ulteriore livello: l’espulsione urbana che vive oggi Firenze non è neutra. Colpisce prima chi ha redditi più bassi e carichi di cura più alti. Cioè, ancora una volta, le donne.
E dentro le donne, colpisce più duramente:
le madri sole,
le lavoratrici precarie,
le donne migranti,
chi non ha una rete familiare di supporto.
L’urbanistica, così come è organizzata, non è solo inefficiente: è ingiusta. E contribuisce a riprodurre i divari che dice di voler colmare.
Questo svantaggio urbano si traduce in una disuguaglianza quotidiana che tocca:
la libertà di muoversi,
la possibilità di lavorare,
il diritto di abitare,
la sicurezza,
la partecipazione,
la salute mentale,
la qualità della vita.
La città non è il contenitore neutro delle nostre vite. È l’ambiente che amplifica o riduce le possibilità di esistenza. Ed è a partire da questo che dobbiamo immaginare altro: una città che non renda la cura un peso privato, ma una responsabilità collettiva.
Che cosa succede se, invece di ignorarla, mettiamo la cura al centro del progetto urbano?
5. Che cosa succede se mettiamo la cura al centro?
Mettere la cura al centro significa, prima di tutto, riconoscere che la vita non è lineare né continua.
È fatta di fragilità, dipendenze, interruzioni, relazioni.
E che questi elementi non sono eccezioni da gestire privatamente, ma la sostanza stessa della vita quotidiana.
Per decenni l’economia dominante ha nascosto questa dimensione, costruendo le proprie metriche come se il tempo della vita fosse identico al tempo della produzione: misurabile, prevedibile, stabile.
La cura smentisce questa illusione. È intermittente, complessa, intrecciata. E soprattutto non può essere trattata come un “costo” individuale da gestire dentro le mura domestiche.
1. Cambiare l’idea di valore (e dire finalmente la verità sui numeri)
Mettere la cura al centro non è un esercizio teorico: significa ripensare che cosa consideriamo ricchezza, chi la produce e chi ne beneficia.
Come abbiamo già accennato, il lavoro di cura non retribuito viene stimato intorno al 26% del PIL, mentre l’aumento teorico legato a una piena occupazione femminile si fermerebbe intorno al 10%.
In proporzione, il valore della cura invisibile è enormemente superiore al PIL che “le donne al lavoro” potrebbero generare.
È il sistema a reggersi sul lavoro gratuito femminile, non il contrario.
Dire questo significa toccare il cuore dell’ingiustizia distributiva: la società funziona perché un’enorme quantità di lavoro gratuito — svolto in gran parte dalle donne — non viene riconosciuto né redistribuito.
Mettere la cura al centro significa quindi investire, cambiare priorità pubbliche, riconoscere il valore reale della vita quotidiana.
2. Ridefinire l’infrastruttura sociale
La cura non è solo “accudire”: è una rete di strutture che rendono possibile la vita.
Nidi, scuole, consultori, case della comunità, spazi civici, trasporti pubblici, marciapiedi ampi, servizi di prossimità, spazi pubblici vivibili.
Una città che mette la cura al centro sostiene questa rete; una città che non lo fa la scarica sulle donne.
3. Spostare il focus dal mercato alla vita
Se la cura diventa una responsabilità collettiva:
non dipende dal reddito individuale,
non viene delegata a donne migranti sottopagate,
non si regge sulle disponibilità familiari,
non è lasciata al caso o alla buona volontà.
Diventa un diritto, come la salute o l’istruzione.
E questo trasforma la città in un sistema che funziona per le persone, non malgrado le persone.
4. Superare la retorica della conciliazione
La conciliazione è un compromesso che chiede alle donne di fare acrobazie quotidiane.
Mettere la cura al centro significa spostare l’attenzione dal singolo corpo femminile al sistema che lo schiaccia: tempi, servizi, organizzazione urbana, welfare, distribuzione del lavoro domestico.
5. Cambiare radicalmente la progettazione urbana
Una città costruita sulla cura:
riduce le distanze,
moltiplica gli spazi di prossimità,
illumina e protegge lo spazio pubblico,
libera tempo,
riduce la fatica,
sostiene chi si prende cura,
costruisce sicurezza senza militarizzare.
È una città pensata per la vita reale, non per un cittadino astratto senza legami né responsabilità.
6. Riconoscere che la cura è politica (non un sentimento)
La cura di cui parliamo non è un fatto emotivo.
È una struttura materiale che sostiene tutto: lavoro, scuola, salute, socialità, autonomia.
Metterla al centro significa redistribuire potere, risorse, tempo e libertà. Significa far emergere un altro modo di fare città.
Abbiamo iniziato da una frase apparentemente innocua — “se più donne lavorassero…” — e ci siamo ritrovatə dentro un sistema che si regge sul lavoro invisibile, non riconosciuto e non redistribuito delle donne.
Un sistema che non riguarda solo il lavoro, ma la città, lo spazio, il tempo, la sicurezza, i servizi, la libertà di muoversi e di scegliere.
Per questo mi fermo qui.
I ragionamenti meritano spazio, respiro, altri sguardi.
E soprattutto meritano una domanda successiva:
come sarebbe una città progettata davvero per la vita e non solo per la produzione?
Ne parleremo. Per adesso, mi interessa lasciare una traccia — un pensiero che continua a lavorare anche quando chiudiamo la pagina: non c’è emancipazione possibile senza una città che redistribuisce la cura.
Se questi temi ti risuonano, se ti fanno pensare al tuo quartiere, ai tuoi tempi di vita, ai tuoi percorsi quotidiani, allora possiamo continuarli insieme, in altri articoli, in altri spazi, nelle nostre comunità.
Perché cambiare la città non significa solo cambiare lo spazio. Significa cambiare ciò che consideriamo importante. Significa cambiare noi.
ISTAT, Il valore del lavoro domestico e di cura non retribuito in Italia, 2019.
ISTAT, Contabilità Nazionale Satellite sulla produzione familiare, 2019.
OCSE, Closing the Gender Gap, vari report 2012–2023.
FMI, Women, Work and the Economy, 2013.
Regione Toscana, Carico mentale, produttività e scelte professionali delle donne, 2023.
CNA Firenze / La Nazione, Occupazione femminile nella Città Metropolitana di Firenze, 2024.
Nove da Firenze, Retribuzioni nel settore privato, 2024.






