La città cibo per il capitale. Il nostro veleno. Ma esiste l’antidoto.
- silvina50100
- 7 nov
- Tempo di lettura: 4 min
I cannibali di Firenze
Negli ultimi anni Firenze ha cambiato forma.
Non è un processo spontaneo né inevitabile: è il risultato di una strategia di colonizzazione urbana che trasforma la città in un dispositivo di estrazione di valore.
Sotto la superficie delle parole rassicuranti – “rigenerazione”, “valorizzazione”, “riqualificazione” – si nasconde un progetto politico ed economico preciso: trasformare la città in un prodotto finanziario.
Non un luogo da abitare, ma una rendita da estrarre.
Non un bene comune, ma un capitale da monetizzare.
Eppure Firenze non è solo un insieme di pietre, di turisti e di viste da cartolina: è un corpo vivo, fatto di relazioni, storie, quotidianità.
Un corpo che oggi viene lentamente svuotato dall’interno.
Una marea di edifici pubblici e privati venduti a fondi d’investimento, trasformati in alberghi, residenze di lusso o studentati di fascia alta. Operazioni in cui il suolo diventa asset e la vita urbana effetto collaterale.
🔸 Dalla gentrificazione alla colonizzazione urbana
Si parla spesso di gentrificazione, ma ciò che sta accadendo va oltre:
è una vera e propria colonizzazione della città da parte del capitale finanziario globale.
Come ogni colonialismo, anche questo si fonda su rapporti di forza.
C’è chi arriva con il capitale, chi detta le regole e chi viene progressivamente espulso.
Solo che oggi non si estraggono risorse naturali, ma spazio, memoria e senso di appartenenza.
È una forma di estrazione invisibile: avviene attraverso la burocrazia, le società veicolo, i fondi immobiliari, le sigle rassicuranti.
Ogni “valorizzazione” è una sottrazione.
Ogni “progetto di pregio” è un frammento di città sottratto alla vita quotidiana.
Negli ultimi dodici mesi, a Firenze, i canoni d’affitto sono cresciuti del 5,3 %, i prezzi di vendita del 9 %.
Una crescita che non corrisponde a miglioramenti reali, ma alla pressione del capitale speculativo.
L’effetto è l’espulsione sistemica: non solo dei poveri, ma anche della classe media, dei giovani, degli operatori culturali, degli artigiani, delle famiglie che rendono la città viva.
Chi non può restare se ne va, e con lui se ne vanno la memoria, le reti di prossimità, la vita di quartiere. Al loro posto restano vuoti emozionali e monoculture turistiche. Una scenografia in attesa di nuove masse in cerca del bello, dell’esperienza carotolina, il parco a tema con il brand delle schiacciate e le buche del vino. Non più accessibile agli stipendi medi di chi ci nasce, ma neanche a viaggiatori e viaggiatrici in cerca di autenticità e relazioni indigene.
🔸 La Cassa Depositi e Prestiti e la metamorfosi del “pubblico”
In molte di queste operazioni di svendita del patrimonio pubblico il soggetto venditore è formalmente pubblico, ma agisce secondo logiche privatistiche.
In molti casi infatti la transazione è stata gestita dalla Cassa Depositi e Prestiti S.p.A., una società per azioni a partecipazione pubblica:
l’83 % delle quote appartiene al Ministero dell’Economia e delle Finanze, il resto a fondazioni bancarie.
Questa trasformazione giuridica non è neutra.
La CDP, nata nel XIX secolo come istituzione pubblica per finanziare opere d’interesse collettivo, è stata trasformata in S.p.A. nel 2004, in seguito al decreto legge 269/2003.
(Chi c’era al governo?)
Da allora, pur mantenendo una funzione “pubblica”, opera come attore finanziario: partecipa a fondi immobiliari, gestisce operazioni di mercato, dismette patrimoni, genera profitti.
È una metamorfosi che riflette la più ampia finanziarizzazione dello Stato.
Laddove un tempo l’obiettivo era garantire diritti, oggi prevale la logica del rendimento.
Così il pubblico non si oppone più al privato, ma ne replica i meccanismi.
Questa è la vera cannibalizzazione: il progressivo assorbimento delle funzioni pubbliche dentro l’economia della rendita.
Una forma sofisticata di spoliazione contemporanea, che non avviene con la forza ma attraverso la semantica della “valorizzazione”.
🔸 L’impatto psicoambientale: quando la città smette di nutrire
Dietro ogni dato economico ci sono conseguenze psichiche e ambientali.
Quando lo spazio si restringe e diventa ostile, anche le persone si contraggono.
Quando la città perde diversità e accessibilità, la vita urbana diventa più fragile, più ansiosa, meno empatica.
Le neuroscienze ci dicono che il benessere è profondamente legato a fattori percettivi e relazionali: luce, prossimità, verde, possibilità di incontro, senso di controllo sul proprio ambiente. Quando questi elementi vengono meno, aumentano i livelli di stress, isolamento, alienazione.
La città della rendita non produce salute: produce cittadini espropriati, costretti a vivere in periferie sempre più lontane, a muoversi di più, a pagare di più, a respirare peggio.
E questo ha un impatto diretto sulla psiche collettiva: perdita di fiducia, rabbia diffusa, senso di impotenza.
In altre parole, la speculazione immobiliare diventa anche una questione di salute pubblica.
🔸 Città cannibale, città empatica
C’è però un altro modo di pensare la città. Un modo che parte dalla cura, non dal consumo.
Dall’empatia, non dalla competizione. Dalla vita, non dalla rendita di posizione. Da una lettura dei rapporti di forza che ha lo scopo di non crearne altri. Sembra naïf? Sì, è allora? Io la rabbia che mi fa venire questa città la incanalo così, curando in me stessa la consapevolezza che il capitale cannibalizzerà se stesso. Sognando e desiderando altro, lottando per per un altrove.
Una città empatica è quella che riconosce la complessità dei suoi abitanti e ne tutela la diversità. Che rigenera non per vendere, ma per restituire spazi di relazione. Che investe in bellezza diffusa, accessibile, quotidiana. Che redistribuisce e non accumula.
Che considera la casa un diritto e non un investimento.
La rigenerazione reale non è una questione di metri quadrati, ma di qualità ambientale e sociale: cortili condivisi, spazi di prossimità, laboratori artigiani, verde accessibile, case popolari ben progettate, luoghi dove si coltiva identità e non rendita.
Serve una nuova alleanza fra architettura, psicologia e cittadinanza: una architettura psicoambientale che rimetta al centro la salute relazionale dei luoghi, il senso di appartenenza, la dimensione sensoriale e affettiva dello spazio.






